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Pasolini: da Alì dagli occhi azzurri, La Mortaccia (frammenti) (1959), Canto I

Nel novembre del '65 uscì la raccolta narrativa Alì dagli occhi azzurri che conteneva nella parte centrale le sceneggiature de La notte brava, Accattone, Mamma Roma, La ricotta, mentre la prima e l'ultima parte era costituita da racconti che risalivano agli anni Cinquanta e dagli abbozzi dei romanzi Il Rio della grana e La Mortaccia.

Da La Mortaccia, ambientato al Quadraro, Acquedotto felice, riportiamo in parte questo primo canto

..Il sonno! Mamma mia! Un sonno che proprio se la stava a fà sotto, pora Teresa: capirai, co' quella giornata ch'aveva passato, n'aveva fatti pochi d'impicci!

Scese tutta sonno, coll'ossa rotte: imboccò il vicolo, che ci si vedevano dietro tutte le lucette della ferrovia, e più dietro quelle del Quadraro, e più dietro quelle di Cecafumo, e più dietro quelle di Cinecittà: ma tutte sbattute, perse, perché era notte alta e, da quando Marzano aveva preso Roma, a mezza notte, da quelle bande, c'era il coprifuoco. Passò sotto l'archi, con tutti i fregi e le fregne di pietra del tempo dei Papi, andò oltre il funtanone, addossato a quell'archi come un altare, e imboccò il Mandrione, per una pista di fanga, incassata sotto la muraglia dell'Acquedotto Felice, alto che non si vedeva il cielo, da una parte, e dall'altra i prati coperti dallo sterco dei cavalli degli zingari, e della loro zella, affumicata, perché più sotto, tra le fratte sventrate, passava il treno. Sotto la muraglia, una addosso all'altra, c'erano le baracche, come tanti gallinari, con le finestrine e le porticelle di legno fracico, e i tetti di bandone.

Sotto, tutto lo sciroppo pasticciato dalle pedate dei clienti di quelle che battevano lì, dentro i tuguri - insieme a quelle piccolette dei ragazzini, che ci avevano giocato rognosi e ignudi durante il giorno, schivando le sciacquate delle catinelle, che le zoccole svuotavano fuori dalle porte senza manco guardare chi c'era e chi non c'era.

La catapecchia di Teresa era una dell'ultime, quasi laggiù in fondo, poco prima dell'arco, verso i depositi della Coca Cola…

Le borgate perdute di Pasolini
di Filippo Ceccarelli

La Domenica di Repubblica, 6 novembre 2005 .

Orti e praterie

...«C’era calma e sole dietro il Quadraro» scrive Pasolini. Bene: non c’è più. Non c’è più il 409 che sulla Tuscolana, verso Porta Furba, «cambiava marcia raschiando in mezzo alla folla, fra i tricicli e i carretti degli stracciaroli, le biciclette dei pischelli e i birroccioni rossi dei burini che se ne tornavano calmi calmi dai mercati verso gli orti della periferia». Là in fondo, adesso, c’è Ikea, penultima cattedrale del consumo. L’acquedotto è rimasto: restaurato dalla Banca d’Italia e illuminato dall’Acea.

da Pier Paolo Pasolini - Meditazione Orale

..dietro al Quadraro i prati erano deserti.

Omaggio al Quadraro. (da Petrolio, P. Pasolini)

Malgrado questo finale quasi pirotecnico, la Visione non doveva finire così. C’era evidentemente in essa qualcosa di residuo che si doveva ancora esprimere, anche se, come vedremo alquanto ambiguamente.

La mia solita onestà mi costringe ad avertire il lettore-eludendo le regole dell’ambiguità,  cui dovrei, a rigore,  attenermi- che tale residuo della visione ha valore anche metalinguistico: il suo significato vale per il “Mysterion”, nel preciso momento in cui viene rappresentato, ma vale anche sul piano generale delle intenzioni dell’autore (del resto non meno ambiguamente che nel racconto)

Quando Carlo prese timidamente congedo da coloro che chiacchieravano sotto gli archi del colosseo ( i quali non si accorsero nemmeno di lui e di quel timido saluto che egli azzardò andandosene), la notte era già alta. Sembrava ancora pieno inverno, benchè il vento che soffiava non fosse tramontana, ma un umido scirocco. Tutto era deserto. Il vento pareva aver spazzato via non solo le cartacce o le inimmaginabili immondizie raccolte seull’asfalto-c’erra addirittura della paglia- ma anche gli uomini e i loro stessi fantasmi.

Ad ogni modo un tram passava ancora, stridente, luminoso e completamente vuoto. Carlo lo rincorse e lo raggiunse alla fermata davanti alle saracinesche abbassate di due o tre bar e di un edicola. Fece appena in tempo ad osservare che dall’altra parte del colosseo, erano seduti sulla stecconata con cui era vietato l’ingresso agli archi, due o tre ragazzi. Ma erano ombre lontane, e re3starono ben presto indietro con le loro segrete intenzioni. Il tram portò Carlo alla stazione, e qui egli attese a lungo un altro tram ch lo portasse al quartiere dove abitava, cioè il Tuscolano verso Cinecittà: e precisamente il Quadraro.

La sua casa era lontana dalla fermata del tram: così egli dovette fare un pezzo a piedi, per le strade deserte spazzate dal vento.

Il Quadraro era un vecchio quartiere povero, fatto tutto di casette costruite dai loro stessi proprietari con le loro mani, oppure misere palazzine a due o tre piani. L’intonaco non c’era , o era vecchio, decrepito. Anche i marciapiedi era poco più che piste di terra lungo le case, separate da uno sconnesso listone di pietra dall’asfalto slabrato delle stradine.

Tra le case c’erano dei vuoti, disordinatamente riempiti da orticelli o ripostigli all’aperto, pieni di stecconate, tettoiette di bandone, e una quantità di attrezzi abbandonati sul terriccio duro e maleodorante. Le vecchie imposte delle finestrelle erano tutte chiuse, come del resto i portoncini dei miseri anditi o le saracineshe dei negozietti. Solo l’illuminazione pubblica spandeva la sue luce giallina.

La casa che Carlo aveva affittato, come abbiamo visto, era proprio una di quelle povere case semiabusive, in una strada parallela alla strada principale del Quadraro, che scorreva lungo una linea ferroviaria, oltre la quale si alzava la barriera dei vecchi muraglioni seicenteschi del Mandrione. Per raggiungere quella strada, Carlo doveva deviare per una viuzza, piena appunto di orticelli e piccoli depositi, la quale, a un certo momento si apriva ad uno slargo rotondeggiante, che aveva l’aria della piazzetta di un paese (lontano, punteggiati di luce smorte, giganteggiavano i nuovi palazzoni di Cinecittà). Fu appunto passando attraverso quello slargo, poco prima della sua casa- dove lo attendeva il lettuccio col materasso di crine e i poveri mobili di un interno peggio che operaio: luogo in cui era stato così meraviglioso fare l’amore – che a Carlo apparve – staccata – l’ultima scena della Visione.

Il vento cadde di colpo. Gemette lontano, in un rantolo accorato il fischio di un treno, e per qualche istante si senti piangere un neonato.

Le casette intorno, a un tratto parve come slabbrarsi e ammuffire: e sopra di loro il cielo fitto di stelle ma senza luna, parve divenire più presente, forte, luminoso; com’e nei deserti.

Al posto di quelle case, apparve un enorme Tabernacolo. Il piedistallo era di mattoni, anch’essi consumati dal tempo, come nei sogni: piccoli mattoni rossi di costruzioni rustiche: ma il Tabernacolo era di legno. Quattro alte colonne, molto agili, di legno tarlato e quasi fradicio, reggevano una tettoia, anch’essa molto rustica, ma al tempo stesso preziosa, come potrebbe essere la porta del cortile di una reggia orientale. I coppi – che si intravedevano sopra l’elegante architrave intagliata di piccole figure, e la grondaia di piombo – eranoneri, e anch’essi molto xxx dal tempo.

In questo  Tabernacolo – le cui forme del resto erano assai imprecise e si sfacevano nel cielo scintillante – era contenuto un grande simulacro, di diversa materia: nefra o fumo(?). Le misure di tale simulacro non potevano dirsi gigantesche: tuttavia esso era grandioso: alto tre volte almeno un uomo di statura normale. Dire che rappresentasse una donna, sarebbe inesatto, benchè questa fosse la prima impressione. Si trattava infatti piuttosto di un mostro muliebre, consistente in due gambe piuttosto tozze, su cui era incastrata, al posto dell’inguine – tanto che il taglio della vulva coincideva col taglio del mento – una grossa testa di donna. I capelli erano acconciati come quelli delle contadine, ma nei giorni di festa: due cerchi (di metallo o di stoffa, non si poteva distinguere) li stringevano: per cui una parte incoronava la fronte, una parte formava una specie di crocchia in mezzo alla testa. Questo mostro muliebre, tuttavia, reggeva con la mano destra, un lungo bastone, della stessa altezza. E questo bastone era senza possibilità di dubbio, un lungo nodoso membro virile.

Davanti a quell’enorme simulacro poroso di fumo scuro, che si confondeva col cielo retrostante carico di stelle, c’era una piccola folla, distratta o indifferente: comunque seria e quasi costernata: si trattava ad ogni modo, come dire? Di una folla di trapassati, che oramai non avendo più alcun interesse o curiosità per qualsiasi cosa potesse apparirgli o succedergli in quell’angolo notturno e abbandonato del mondo attuale.

Il simulacro poggiava i piedi su una specie di alto gradino di nefro: e, sullo spaccato di tale gradino, c’era un iscrizione.

Carlo si avvicinò e lesse le seguenti parole: “HO ERETTO QUESTA STATUA PER RIDERE”

Ora basta santificazioni, Pasolini resta un lupo

Aurelio Picca - Dom, 03/07/2011

articolo apparso su il giornale, per leggere tutto l'articolo: http://www.ilgiornale.it/news/ora-basta-santificazioni-pasolini-resta-lupo.html

..Le scene di orgia collettiva che Pasolini descrive in Petrolio erano state vissute nei primi Sessanta tra Cecafumo e Cinecittà, sulla linea della Tuscolana. Sotto il Quadraro preferiva le «orine dei militari» che reclutava trenta alla volta per cinquecento lire a testa..



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