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di Umberto Gentiloni

la Repubblica 24 MARZO 2024

articolo 12 01                                                                                Il presidente Sergio Mattarella durante la commemorazione delle Fosse Ardeatine del 2022 (ansa)

Dopo l’8 settembre 1943, la liberazione di Roma diventa un obiettivo dei comandi Alleati sotto diversi punti di vista. Il primo logistico, parte della più ampia valutazione della campagna d’Italia. Il secondo simbolico, in quanto si tratta del possibile ingresso degli Alleati in una delle tre capitali dell’Asse. Il terzo strategico, essendo l’operazione utile a impegnare le forze tedesche altrimenti impiegabili nel contrastare l’apertura del secondo fronte in Europa, prevista per 6 giugno 1944 in Normandia. Secondo i piani degli alti comandi, la presa della Capitale avrebbe dovuto seguire di qualche settimana lo sbarco di Anzio del 22 gennaio 1944. Nel contesto della guerra totale, il 23 marzo 1944 i partigiani romani dei Gruppi d’azione patriottica fanno esplodere a via Rasella un ordigno diretto contro un battaglione tedesco dell’undicesima compagnia del reggimento di polizia Bozen. Ventotto soldati muoiono immediatamente; altri cinque nelle ore successive. La sera stessa del 23 marzo, il maresciallo Kesselring propone la fucilazione di dieci italiani per ogni tedesco ucciso. La proposta, approvata dalle più alte gerarchie naziste a Berlino, è immediatamente attuata. Herbert Kappler, tenente colonnello delle SS e comandante dei servizi di sicurezza tedeschi a Roma, incarica i capitani delle SS Erich Priebke e Karl Hass di radunare per il giorno successivo 330 civili italiani. Pur accorgendosi di avere inserito nell’elenco 335 persone invece delle 330 previste, Priebke e Hass decidono di non rilasciare i cinque prigionieri in eccesso, per non “compromettere” la segretezza dell’azione. Sulle motivazioni basti il richiamo alle parole di Vittorio Foa: «Si uccidevano gli ebrei perché erano ebrei, non per quello che pensavano e facevano, si uccidevano gli antifascisti per quello che pensavano e facevano, si uccidevano uomini che non c’entravano nulla solo perché erano dei numeri da completare per eseguire l’ordine».

Nel primo pomeriggio del 24 marzo i prigionieri sono trasportati da via Tasso, sede del comando delle SS, e dal carcere di Regina Coeli alle Fosse Ardeatine. Kappler ha deciso che le uccisioni siano coordinate direttamente dai capitani Schütz e Priebke. L’ordine impartito ai soldati tedeschi è di non utilizzare più di un minuto per uccidere ognuno dei 335 civili innocenti. I prigionieri sono portati a gruppi di cinque all’interno delle cave; le mani legate dietro la schiena, sono obbligati a inginocchiarsi. Ad attenderli, i tedeschi incaricati di sparare un solo colpo alla nuca del condannato. Il più anziano tra gli uomini uccisi ha poco più di settant’anni, il più giovane quindici.

Ma chi sono le vittime? Perché vengono selezionate? Cosa raccontano le loro biografie spezzate dalla violenza? Un segmento della popolazione cancellato in poche ore. Basta fermarsi sui dati sensibili di un elenco riassuntivo di tipologie possibili: generali e straccivendoli, analfabeti e intellettuali, commercianti e artigiani, un prete e 75 ebrei; monarchici e azionisti, repubblicani e comunisti, altri aggiunti alla rinfusa, per raggiungere il numero stabilito confutando così la logica terribile della rappresaglia in stile nazista. Un’azione organizzata con gli strumenti e le capacità di un sistema complesso: archivi, liste di potenziali oppositori, catene di comando, collaborazione con fascisti e questura, logistica, trasporti, conoscenza del territorio.In anni successivi, il nesso tra l’azione partigiana e la rappresaglia nazista, viene proposto come paradigma di lettura sulla Resistenza e i suoi errori, si arrivò perfino a sostenere che sui muri di Roma fossero comparsi manifesti che chiedevano ai partigiani di consegnarsi preventivamente alle autorità naziste.

Con fatica e tenacia la verità si è fatta strada, la logica degli eventi ha prevalso nelle ricostruzioni della storiografia più qualificata e nelle aule di giustizia che hanno affrontato la vicenda. In questo contesto si inserisce l’epilogo giudiziario che ha coinvolto uno dei protagonisti della strage, il capitano Priebke. Alla fine della guerra, come molti altri criminali nazisti, si rifugia in Argentina, a San Carlos di Bariloche, sotto l’ombra delle Ande. Una vita in disparte con moglie e figli fino a quando – il 6 maggio 1994 - un cronista della rete televisiva statunitense ABC non lo scova a seguito di una soffiata del centro Simon Wiesenthal di Los Angeles. Il giornalista Sam Donaldson lo segue e lo incalza, gli chiede delle sue giornate romane, di un massacro lontano, lo accusa di essere un criminale di guerra.

Priebke nega, poi ammette di aver eseguito degli ordini «contro chi meritava la morte». L’intervista arriva in Italia, scuote coscienze e riapre ferite mai sanate. Il criminale nazista viene estradato, una lunga estenuante stagione di processi e ricostruzioni investe il tessuto civile. La condanna arriva implacabile portando con sé amarezze e dolori.Erich Priebke non aveva cambiato idea, né chiesto scusa del suo terribile passato. C’è voluto del tempo, molto tempo, per ritrovare quell’uomo, sfilarlo dalla quotidianità di una vita normale in un piccolo paese dell’Argentina per condurlo di fronte alle responsabilità che solo la storia riesce a riproporre. Giulia Spizzichino, un’ebrea romana segnata dalle deportazioni e dalla strage delle ardeatine, parte in missione per fare pressione sulle autorità argentine: «Ma chi ero io quel giorno di maggio del 1994 in cui dovevo mettere tutti i miei ricordi in una valigia e partire verso l’ignoto? Era lì che aveva trascorso la sua latitanza Erich Priebke, fin lì avrei dovuto portare la mia angoscia e il mio desiderio di giustizia».

Alla fine, una condanna, faticosa e dolorosa, un verdetto unanime racchiuso in una parola in grado di resistere alle usure degli anni: colpevole. La storia non si può cancellare: il bilancio è solido, i confini certi, le interpretazioni condivise e documentate. Con le sentenze dei tribunali e le analisi proposte da generazioni di studiosi si rinnova il monito di Primo Levi: conoscere per non dimenticare, comprendere affinché mai più si ripeta.

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